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9 February 2016

Enrico Caruso, la leggenda del tenore oltre l’oceano – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

di Laura Valente

Chiariamo subito un punto. Non ci troviamo di fronte all’ennesima e qualificata celebrazione di Enrico Caruso. Quella di Francesco Canessa è un’avventura letteraria che porta in dote qualcosa di diverso, e in qualche modo familiare, sulla vita del cantante che più di ogni altro è icona di una napoletanità nobile e leggendaria legata anche alla doppia anima del suo cantore: tenore lirico osannato nei più importanti teatri del mondo, ineguagliabile interprete di melodie immortali della canzone napoletana, il primo cavallo di razza dell’industria discografica a vendere un milione di dischi, entrando nell’Olimpo delle star più popolari della storia della musica.

 La holding famigliare

In Ridi Pagliaccio! Vita, morte e miracoli di Enrico Caruso (Edizioni La Conchiglia, pag 205, euro 20) l’autore, che il mondo della lirica lo ha frequentato da protagonista (è stato apprezzato sovrintendente del Teatro di San Carlo dal 1982 al 2001 ma anche per lungo tempo giornalista), tratteggia con lo stile inconfondibile della sua scrittura gli ultimi anni di vita del tenore, intrecciandoli con la saga dei Canessa Antiquaires. Questa particolarissima holding familiare aveva avuto l’intuizione di acquistare il Tesoro di Boscoreale, per poi cederne una parte al barone Rothschild, che a sua volta lo donò al Museo del Louvre.

La passione per gli oggetti

Uno dei fratelli che – tra New York, Parigi e Napoli — contribuirono a trasformare la passione per gli oggetti d’arte di Caruso in collezioni di pregio (le monete auree “fior di conio” di Boscoreale finirono nella collezione numismatica del tenore), era Cesare, nonno di Francesco, che gli dedica l’incipit del primo capitolo. «Caro signor Cesare, al mio arrivo a Napoli ho trovato la vostra lettera (…) Sono passato dalla galleria… ma ho saputo che siete a Firenze. Salutate tutti, in particolare la cara e dolce vostra figliola Elena. Con affetto, Enrico». Questa lettera è datata 15 giugno 1921, il 2 agosto Caruso avrebbe lasciato questo mondo. La “cara e dolce Elena” due anni dopo sarebbe diventata la moglie di Enrico jr detto “Mimmi”, secondogenito del tenore. Sono molte le finestre intime di questo libro che si legge tutto d’un fiato anche se non sei un esperto di lirica o un devoto carusiano.

Il falso storico dei fischi al San Carlo

Scrittura asciutta, quasi da reportage, che sfodera i suoi assi nella capacità di commuovere o far sorridere con le piccole e grandi storie che ruotano attorno alla vita e alla fortuna de “la voce del mondo”, dal falso storico dei fischi al San Carlo (al loro posto applausi e bis “a furor di popolo” secondo le recensioni d’epoca) al periodo americano in cui Caruso è re di un Metropolitan (dal 1903 al ’20) governato da due big come Gatti Casazza e Toscanini, dall’ossessione per il ricordo del collega tedesco Rodolf Berger (morto “sul campo”, come desiderano in fondo tutti gli artisti) al potere evocativo dell’aneddoto sul cameriere Vincenzo Sindaco, che anche da pensionato ma ogni domenica mattina ha santificato «la festa salendo in collina sino al camposanto per far visita a Don Enrico. Ha con sé un più moderno apparecchio digitale, siede sui gradini della Cappella, preme un tastino e come per miracolo di nuovo si spande, tra i viali e le croci del Cimitero del Pianto, la voce di Caruso». Ecco è proprio questo il punto.

Un fuoriclasse nato povero

Caruso incarna ancora oggi un simbolo che va oltre la sua carriera da fuoriclasse. Questo uomo del Sud, nato povero e senza studi “alti”, capì più di chiunque lo spirito del suo tempo, intuì che il belcanto più sottile e astratto doveva evolversi con il gusto della sua epoca e assumere novità espressive più sanguigne, possenti. Da Berlino a Città del Messico, una platea globale amò Caruso incondizionatamente. Ma fu l’America a trasformarlo in un’icona planetaria: star del cinema, il primo cantante lirico a incidere canzoni napoletane (di fatto annullando la distanza tra musica colta e popolare) e nello stesso tempo a vendere più di un milione di dischi con «Vesti la giubba», l’aria celeberrima dai Pagliaccidi Leoncavallo, con cui riuscì ad abbattere tutti i pregiudizi che i grandi artisti avevano contro il grammofono. Non era mai accaduto prima.

Di culto a New York, ma non a Napoli

Ancora oggi il culto carusiano non conosce confini. A New York un museo lo celebra e nello stesso tempo ribadisce attraverso la sua parabola artistica l’ affermazione orgogliosa di quella cultura italiana che ha scritto pagine fondamentali nello sviluppo della moderna industria americana e (quindi) universale dello spettacolo. E noi? Chiunque arrivi a Napoli e voglia inseguire le sue tracce può gongolare solo davanti ad una targa consumata in via San Giovanniello agli Ottocalli, la casa dov’è nato. Vogliamo aspettare il 2021 (i cento anni dalla morte) e limitarci a prenotare una messa in onore del defunto o ci attrezziamo a far qualcosa?

Verso il centenario, c’è tanto da fare

Caruso ci obbliga ad uno strappo, come direbbe Alessandro Baricco. Uno spirito come il suo non ci chiede musei di reliquie o pellegrinaggi episodici utili soltanto alle propagande elettorali. Caruso pretende molto da noi. Vuole ancora cantare e far cantare. Cuore e talento è la sua Napoli, onorata con nobiltà del belcanto e straordinaria freschezza, in un’aria d’opera come nella canzone, dove la sua voce si fa pura melodia e diventa per un momento preghiera laica di un intero popolo. Ecco lo strappo. Saremo capaci di tenere in vita ciò che Caruso ci ha lasciato, facendone impresa produttiva e senza steccati di genere? Abbiamo infinite possibilità: da itinerari ad hoc per turisti ed appassionati a laboratori per giovani di talento, da rassegne da inserire nel circuito internazionale ad un museo multimediale che pieghi alla celebrazione di un talento unico tutte le tecnologie che questo tempo ci mette a disposizione. Abbiamo ancora cinque anni. Forse potremmo sanare questo debito indecoroso. Chissà.

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