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3 June 2004

Galasso, un poeta al di sopra di ogni sospetto – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

di Francesco Durante

Undici anni fa, con il volumetto Capri insula, Giuseppe Galasso offrì una magistrale lezione di grande storia applicata a un soggetto l’isola di Capri, per l’appunto che pareva riservato esclusivamente a una minuta erudizione. Lo storico napoletano fece respirare a quel fatale angolo di terra circondata dal mare l’aria che più gli si confaceva: un’aria europea, perfettamente avvertita dei grandi rivolgimenti politici e sociali cui il mondo andava incontro mentre l’idillio caprese restava dov’era, apparentemente immutabile, e invece strettamente interconnesso con tutto il resto.
Adesso, il medesimo editore del volumetto di allora, che è la benemerita Conchiglia, manda in libreria un novissimo e assai appetitoso Capri insula e dintorni, in cui Galasso, riprendendo e «smontando» l’operina precedente, ne ha conservato (rivedendole) alcune parti, e l’ha corredata di tanti nuovi materiali: non soltanto relativi ai «dintorni», (Ischia, Procida, i Campi Flegrei, la Riviera vesuviana, le costiere sorrentina e amalfitana) del titolo, ma anche schiettamente «capresi». Tra gli inediti: alcune vivaci pagine sul famoso Convegno del Paesaggio promosso da Edwin Cerio nel ’22 (con la riproduzione di alcuni versi «maltusiani» dello stesso Cerio che eternarono la partecipazione di Marinetti all’iniziativa: «Marinetti è quella cosa/ che abolir vuole la luna/ per sostituirvi una/ lampadina elettrica»); un ampio, assai perspicuo capitolo sui fondamenti dell’antica autonomia anacaprese; una elegante riflessione sulla rivalità tra le isole dei golfo; una severa lettura dei risultati letterari («una delusione») del soggiorno caprese di JeanPaul Sartre; e una bella recensione del libro di Roberto Ciuni La conquista di Capri, sull’impresa militare murattiana del 1808. Il passato, dunque, ma anche il presente; e il futuro, con tante pagine che ragionano di problemi concreti (esemplari, al riguardo, quelle di «Quale Capri», il contributo di Galasso a un importante convegno del 1982 promosso sulla scorta di una relazione del Censis; ma anche quelle che parlano dei Campi Flegrei «tra mito, utopia e programmazione»).
Noi però facciamo i giornalisti, e nessuno potrà biasimarci se, fra tante cose interessanti, la nostra attenzione si è soprattutto fermata sull’ultima parte del libro, quella che «fa più notizia». Si tratta di appena una decina di pagine, intitolate «Follie capresi», nelle quali lo storico, il maestro, il professore ha regalato un po’ di spazio a un altro se stesso di una cinquantina d’anni fa; quando, adolescente freschissimo di studi letterari e tutto preso da un lirico entusiasmo per il paesaggio isolano, si scoprì una sorgiva vena poetica, e commise il «peccato» (senz’altro veniale, e senza dubbio comune a tanti) di scrivere versi, che appunto da Capri sono ispirati.
In una nota premessa a queste ritrovate prove giovanili, Galasso si raccomanda all’indulgenza del lettore. Ricorda come quei versi non furono mai pubblicati, e come la «frenesia» del poetare gli passasse presto; circostanza che, anzi, lo indusse a cestinare la più parte di quei componimenti. Noi, tuttavia, crediamo che abbia fatto bene a riportare alla luce la sua superstite opera in versi. Prima di tutto perché il ritrovarsi al cospetto di quelle testimonianze così lontane nel tempo ha sollecitato la sua memoria suggerendogli nuove, godibilissime pagine in cui l’arguzia è costretta a fare i conti con una certa tenerezza. In secondo luogo, perché quei versi ci restituiscono un inconfondibile sapore d’epoca e fanno capire che cosa potesse rappresentare, per un ragazzo sensibile e colto, l’incontro con il meraviglioso spettacolo della natura caprese. Infine, e soprattutto, perché solleticano la nostra curiosità su quello che poteva essere il «laboratorio poetico» di una persona come il professor Galasso tra la fine degli anni ’40 e il principio dei ’50. E qui vengono le sorprese migliori: perché quei versi sono segnale di un’applicazione attenta e rigorosa, con la loro predilezione per le forme chiuse, meglio se decisamente virtuosistiche: una lunga sequenza di quartine di quinari a rima incatenata («Al primo, incerto/ chiaror del giorno/ di luce un serto/ già ti sta intorno»); oppure l’elaboratissimo metro, tra Pascoli e i parnassiani, di un ampio carme ispirato ai miti di Ulisse e delle Sirene («Favole antiche aleggiano/ di Najadi e Sirene/fra mare e cielo intorno alle tue rocce»); e poli sonetti, e in particolare quello in cui l’endecasillabo d’ordinanza cede il passo all’ottonario, più cantabile sì, ma anche ben più difficile da tornire.
Sicché l’indulgenza richiesta da Galasso viene senz’altro accordata. Resta senza risposta una domanda: dove sarebbe potuto arrivare il poeta Galasso se la «follia» non l’avesse così presto abbandonato? Se non avesse subito deciso, come racconta, «di chiedere soltanto ai poeti che potevo leggere la poesia che non ero in grado di ottenere da me»?

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