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25 May 2003

Peyrefitte e il vizietto del barone – LA REPUBBLICA

di Stefano Malatesta

Con il suo fare ciarliero e con il sorriso un po’ melenso ma sempre portandosi dietro quella retorica consapevolezza di essere uno scrittore francese e dunque membro di una stirpe eletta Roger Peyrefitte (di cui è uscito anche Dal Vesuvio all’Etna, editore L’ancora del Mediterraneo, pagg. 188, 15 euro) è stato un formidabile anticipatore di mode letterarie, un precursore del racconto pettegolo e impiccione, impegnato a rovistare con giubilo nei panni sporchi di individui, di famiglie, di gruppi, di istituzioni. Nemmeno il Vaticano si è salvato, in tempi in cui intorno a San Pietro esisteva come una barriera laser, azionata dallo Spirito Sante, che impediva da sempre ai ficcanaso di entrare.
Da allora il gossip come forma letteraria sto parlando di bassa certe, non delle sublimi indiscrezioni alla Saint Simon ha oramai raggiunto i suoi obiettivi e ritroviamo le sue tracce ovunque, nei giornali che si vantano di essere d’opinione e nei libri. La particolarità di Peyrefitte era che il pettegolezzume, falsamente nobilitate diciamo così da una scrittura che mimava l’andamento di prese più nobili, era quasi tutte riservate alla creazione di un nuovo «Chi è?» in versione omosessuale. Anticipando anche qui i movimenti gay, i cui siti sono inzeppati di personaggi famosi che secondo lui sarebbero stati omosessuali, sembra che lo scopo della sua vita sia stato, almeno leggendo i suoi libri («la ricerca dell’io diverso che è in te»), per adoperare un eufemismo, presentando questa ricerca come lo svelamento di inauditi misteri.
Naturalmente l’omosessualità non poteva andare da sola. Bisognava presentarla addobbata da tutte le decadenze da basso impero, due termini, quello della decadenza e del basso impero, così legati tra loro nell’ovvietà da meravigliarsi come Flaubert se li sia lasciati scappare quando compilava il suo breviario dei luoghi comuni. E poi perversità, raffinatezze, cascami di estetismo e tutto il resto di una paccottiglia che sapeva di dannunzianesimo gay lontano un miglio, fino ad allora riservato alle classi alte, che non è detto che fossero così fini, ma che potevano contare sul silenzio e sull’impunità. Ovvero, si parlava e si sapeva ogni cosa, ma all’interno dell’elite, mentre la «working class», come spudoratamente l’hanno chiamata gli inglesi, era tenuta fuori non si facessero venire certe idee nella testa perché il loro compito era di fornire manovalanza senza fare troppe domande. I gusti dei signori, signora mia (permettetemi una citazione dal grande Arbasino) si sa, sono strani. E anche quella vecchia iguana rugosa di Somerset Maugham, che aveva ficcato il naso tutte narici tra i panni intimi degli inglesi coloniali, e pubblicato un mare di pettegolezzi e di retroscena sessuali scabrosi, non fece mai un nome. Non ne aveva bisogno: chi doveva capire, capiva, gli altri non leggevano.
Poi arrivò Peyrefitte, con quell’aria non da diplomatico, come dicevano i giornalisti in automatismo, perché aveva lavorato al Quai d’Orsay, ma da prete di quelli che portano i ragazzini nel confessionale tenendoli stretti e subito chiedono: «Ti sei toccato, quante volte? E t’è venuto grosso ?». E cominciò a spiattellare tutto, spudoratamente: in Vaticano erano tutti ricchioni, all’Onu pure con il segretario generale, le svedese Dag Hammerskiold in testa, mentre Filippo di Edimburgo era innamorate del suo bel segretario, e nelle ease di Julien Green, Henry de Montherland e di innumerevoli altri scrittori giravano certi ragazzotti prepasoliniani. L’Esule di Capri, di cui esce l’ennesima edizione nella elegante veste della libreria «La Conchiglia» di Capri, è in fondo uno dei suoi libri meno nevrotici da questo punte di vista. Perché a sentire lui i ricchioni (preferisco questo termine in area napoletana, quasi benevolo rispetto ad altri soprannomi) costituivano da soli una folla smisurata, quasi una maggioranza non silenziosa, ma nascosta e lo scrittore si era assunte il compito di portarla alla luce, per ragioni morali, diceva lui, perché non c’era nulla da vergognarsi. Per ragioni di cassetta editoriale, dico io, perché erano tempi che bastava appena un sentore di scandalo sessuale per far vendere un numero inverosimile di copie.
Secondo un critico americano, l’ossessione di Roger per il racconto scandalistico attraverso la rivelazione dell’omosessualità altrui in contraddizione, tra l’altro, della sua pretesa di difenderla nascondeva il desiderio di vedersi trascinate con brutalità nelle aule di un tribunale, dove finalmente avrebbe recitate la parte del genio incompreso e vilipeso, per essere poi salvato dalle testimonianze di illustri letterati, venuti a certificare la genialità dei suoi libri. Ma Peyrefitte era un uomo sufficientemente intelligente per nutrire di queste presuntuosissime fantasie e comunque in Italia e nei paesi del Mediterraneo, come gli avrebbe potuto spiegare Norman Douglas, nessuno si sarebbe scandalizzato. Una sera di qualche anno fa, d’estate, gli eredi del fondatore e proprietario di un famoso albergo sulla cesta amalfitana, con un certo orgoglio mi illustrarono il cursus honurum del fondatore dell’azienda, loro nonne, un giovanotto marchettaro che aveva fatto fortuna seguendo il solito lord dalla costiera alle ville inglesi, dalla Giamaica a Cape Cod. Un itinerario non propriamente simile a Dagli Appennini alle Ande, del povere De Amicis che aveva altre idee sull’emigrazione.

Nel secondo dopoguerra, quando sbarcò a Marina Grande con l’intenzione di scrivere su Fersen, Peyrefitte era l’ennesimo autore arrivato qui per ispirarsi a tanta magnificenza. Con il ritmo di celebrità che ogni giorno si presentavano in piazzetta per lo struscio e l’aperitivo, nessuno fece caso a quel signore francese, che vestiva troppo ricercato per lo chic dell’isola e che sembrava interessato solo a riesumare una vecchia storia, già raccontata più di quarant’anni prima da un molto simpatico, irrefrenabile scozzese che aveva combattuto a Gallipoli, era stato agente segreto nel Levante e in Grecia, finito poi a Capri e diventate amico di Norman Douglas. Vestal Fire e Extraordinary Women di Compton Mackenzie, i due libri di ambiente caprese risultano ancora quanto di più divertente si possa leggere sull’argomento, con un magnifico ritratto di Douglas sotto falso nome e avrebbero costituito per chiunque un precedente difficile da superare. Ma Peyrefitte sapeva come cucinare i suoi polli: pazientemente andò alla ricerca di tutti quelli che avevano conosciuto di persona Fersen (pochissimi), di quelli che solo avevano orecchiato (molti), parlò con la sorella, andata in sposa a un nobiluomo napoletano, mescolò il tutto con altri ricordi, speziando forte e chiedendo, una volta terminato il libro, una prefazione a Jean Cocteau. E Jean, che sapeva ancora essere il più spiritoso di tutti, quando voleva, scrisse qualche riga in perfetta malafede, come le avrebbe potute scrivere un vecchio bacchettone, ammonendo a non fare le cicale, perché c’era il rischio di finire come Fersen. Ma va là, Cocteau, se per tutta la tua vita non hai fatto altro! E se devo essere sincero, non sono mai andato pazzo per i libri di Peyrefitte. Esistono tante Capri e quella che lui racconta non è proprio la mia, nel senso che non sono molto interessato ai giochi d’antan di villa Lysis e a quel genere di memorie. Ma conosco anche persone di qualità che hanno amato questo libro, forse perché ha svegliato in loro chissà quali corrispondenze.
Sono passati anche numerosi anni da quando ho visitato Villa Lysis con il mio amico Gianni Cerami, noto urbanista di Napoli e appassionato dell’isola, che stava scrivendo una guida di Capri per instancabili passeggiatori quali allora eravamo. La villa non era più abitata, una parte dei muri era crollata e i giardini circondati da staccionate e custoditi da due strane donne, madre e figlia, la prima nera e forastica che teneva un fucile nel retro della cucina con il quale minacciava i visitatori troppo invadenti e la figlia bionda e normanna, con gli occhi azzurri e le efelidi, e un perenne sorriso che le illuminava il viso, ma che faceva sospettare che non tutto, nel suo equilibrio psichico, fosse in ordine. Era una gloriosa giornata di mezzo giugno e quando arrivammo a Villa Jovis passando per la scorciatoia Punta Campanella sembrava un opale incandescente (un’immagine, ora che ci penso, disgustosamente decadente), e improvvisamente ci sentimmo felici di essere arrivati fino là, senza una precisa ragione, per volontà degli dei pagani e di Tiberio che continuavano a stendere il loro manto protettivo dai Faraglioni a Marina Grande. E in quel momento mi sono ricordato di aver letto, pochi giorni prima, che i poveri soldati inglesi mandati in Francia e nelle Fiandre, il fronte occidentale, durante la prima guerra mondiale, leggevano in prevalenza due libri: Le feu di Barbusse, e Vento del Sud del cattivo zio Norman, che si svolge in un’isola chiamata Nepenthe, trasparentissimo mascheramento di Capri. Affondati da mesi nelle fetide trincee, scavate nel fango nerastro di una campagna disumana, da dove uscivano con i fucili con le baionette innestate, quasi sempre per farsi ammazzare, nei momenti di riposo sognavano il luogo che fosse, più di qualsiasi altro, tutto ciò che quella tremenda guerra non era e che a loro era stato negato. E dove, se fossero sopravvissuti, sarebbero andati come una volta si andava ai santuari, per ringraziare.

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