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Douglas – Capri Come l’antica Grecia – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO
di Sergio Lambiase
Si divertirebbe da matti Norman Douglas, lo scrittore morto a Capri nel 1952, a seguire i ricorrenti litigi sul «numero chiuso», se l’isola debba continuare ad aprirsi democraticamente alle masse sfiancate di turisti governate dai tour operator, o ripiegare ancora una volta sulla sua bellezza da orto concluso, come quando una vita fa gli «uccelli migratori» (artisti, esuli di lusso, eccetera) si posavano a Marina Grande dopo una tormentosa traversata a ridare linfa al proprio spirito infiacchito.
Di padre scozzese e madre austriaca, Douglas arriva da noi nel 1888 (ha solo vent’anni), in compagnia del fratello, contagiato subito, come una febbre tifoidea, dal fascino impetuoso del Sud, assolutamente «selvaggio» e insieme scandito dalle grande memorie del passato, da Pompei ai Campi Flegrei, da Paestum ai luoghi della Magna Grecia. A Napoli Douglas va da abitare in riva al mare di Posillipo, alla Gaiola («molte stanze della mia villa, e tutte le ampie cantine, erano di costruzione romana») e amerà a lungo la città, salvo poi a prenderne le distanze molti anni dopo, quando gli sembrerà che parte del suo fascino ottocentesco sia andato perduto nel difficile cammino di Napoli verso la modernità («Le risate dei tempi andati, la gioia di vivere, il sano disprezzo orientale del valore del tempo: dove sono finiti? Napoli se ne va… Dove sono quei diecimila organetti? Scomparsi tutti quanti. La città si sta perfino liberando dei mendicanti. E poi?»).
La scoperta di Capri è il corollario della scoperta del Sud. Nell’isola vi arriva giovanissimo per rintracciare nientemeno che la lucertola azzurra dei Faraglioni (Douglas ha interessi per metà letterari, per metà scientifici, come un diligente alunno di Goethe). No, il futuro scrittore non ha il coraggio di salire sulla cima aguzza dove vive l’imprendibile sauro. Lo farà per lui un amico caprese, Carlo Spadaro (fratello di quel Francesco Spadaro che cento anni fa compariva in tutte le oleografie di Capri, la gran barba alla Gemito e la pipa in bocca), il quale gli porterà in regalo sei esemplari della lucertola da aggiungere alla sua collezione. La prima casa caprese di Douglas è al Castiglione, una dimora sospesa «tra terra e cielo», «inaccessibile» e arcana, eppure a due passi dalla Piazzetta e dal vociante caffèspaccio di Donna Lucia Morgano (il celebre «zum Kater Hiddigeigei» di via Vittorio Emanuele) dove fermarsi a fare due chiacchiere, semmai tra una sbornia e l’altra.
Nel 1917 esce «South Wind», un romanzo destinato ad una fortuna lunghissima nei paesi anglosassoni (nelle trincee della prima guerra mondiale pare che molti soldati lo portassero nel tascapane) e che ora rivede la luce presso le Edizioni La Conchiglia nella classica traduzione di Henry Furst (Norman Douglas, «Vento del Sud», con una nota bibliografica a cura di Ciro Sandomenico).
Che ,tipo di libro è «Vento del Sud»? E stato definito un romanzoconversazione e i protagonisti non fanno, per l’appunto, che scambiarsi opinioni (sull’esistenza che fluisce, sulla morale, sulla religione, eccetera) come sarebbe potuto accadere una volta in un qualsiasi rispettabile club di Londra o di Edimburgo e certo nel libro si parla fin troppo, in un brusio di voci che s’inseguono e s’interrogano, in maniera quasi ossessiva, sul senso da assegnare alle molteplici configurazioni del mondo, il tutto fra rivoli di humour, ma anche di intellettuale disincanto. Ma «Vento del Sud» è, prima di ogni altra cosa, la scoperta del Sud e di quella profana arte del vivere, sul modello dell’antica Grecia, che il Sud così arditamente pareva allora incarnare.
Un vescovo anglicano Thomas Heard, di ritorno dall’Africa (dall’immaginaria Bampopo) nel suo lungo viaggio di ritorno inghilterra approda nell’isola di Nepente trasparente ricalco di Capri, perché qui vi abita una sua cugina, che vuoi rivedere. Vi resterà pochi giorni, ma sufficienti a mutare la su nordica pruderie in un’accondiscendente comprensione dei vizi del mondo, a cominciare da un delitto di cui Heard è involontario testimone.
Il romanzo è ingolfato di personaggi: Denis, casto poeta turbato dalla prospettiva del peccato, il «bonario» don Francesco, prete «completamente pagano», il «turpe» Muhlen (sarà lui ad essere ucciso, buttato giù da un dirupo), lo scettico conte Colaveglia, lo «stravagante» mister Keith, «proprietario di una delle più belle ville di Nepente», la «cugina» Meadows, la signorina Wilberforce, «con una sete insaziabile di alcool», Edgar Marten, «un giovane ebreo peloso e squattrinato», il ricchissimo van Koppen innamorato delle «brioche imburrate», il mistico Bazhakulov, a metà tra Rasputin e un cospiratore bolscevico, con la sua corte di russi pittoreschi dai «colli della camicia alla Ropespierre, le cinture di cuoio e i camiciotti scarlatti» e così via. Tipi e figure di una Capri sparita, che Douglas si diverte a deformare gettandogli addosso un sottile veleno caricaturale, riproposizione di personaggi davvero conosciuti e frequentati (come confessa in alcune pagine di «Biglietti da visita», ripubblicato anni fa dalle Edizioni Adelphi) e qui infilzati dalla sua elegante (e insieme corrosiva) penna.
Lo scirocco, col suo struggente carico di profumi «esaltati da mille cespugli e mille fiori che si schiudono la notte» ora flagella l’isola, ed Heard è preso in una ragnatela di dubbi e di distinguo, nel mentre asseconda il soffio vitale del «vento del sud», fino alla «desquamazione spirituale» e alla conquista di una più libera temperie morale («Qualcosa di inatteso gli si era infiltrato nel sangue, qualche demone del dubbio, dell’inquietudine che minacciava le sue antiche idee. Da che cosa proveniva? Era l’effetto del cambiamento di luogo: nuovi amici, nuovo cibo, nuove abitudini? … ..O forse il vento del sud agiva su di lui non ancora ben ristabilito in salute? O forse tutte queste cose insieme? O egli era giunto nel suo sviluppo alla fine di uno di quei precisi periodi della vita in cui ogni uomo degno di questo nome passa attraverso un procedimento purificatore di desquamazione spirituale, e sguscia fuori dalle sue logore abitudini di pensiero e di sentimento?»). Un passo più avanti c’è la vertigine dell’abisso e quella «dissoluzione» di ogni puritanesimo, sotto l’impero del sole, che gli «uccelli migratori» sperimenteranno in maniera così conseguente, a cominciare proprio dall’inquieto Douglas.
Lo scrittore è sepolto nel cimitero acattolico di Capri. Nel 1946 era voluto tornare nell’amata Nepente, a trascorrere gli ultimi anni nella Villa Tuoro di Kenneth Macpherson. Sulla sua lapide è inciso un verso di Orazio: Omnes eodem cogimur. Ogni tanto lo scirocco viene a rendergli visita.
Nepente, l’isola dove si può nuotare nell’aria
«Si fece scivolare il binocolo in tasca, e si avviò inerpicandosi peri sentieri ormai familiari, passando davanti a bianche case coloniche annidate in un’orgia di verde, finche non giunse alla zona piu nuda. Qui le vigne coltivate eran piu rare, e presto scomparve ogni traccia di lavoro umano. I fiori e le erbe rare che spuntavano tra fuligginosi massi di pietra perdevano il loro lucido smalto sotto il calore cocente del sole; un odore strano, acre, eppur stimolante, si levava dalla terra arsa. Qui riposò un poco. Osservò il paesaggio attraverso il binocolo: ai suoi piedi un mare violaceo color vino sparso di innumerevoli barche a vela; davanti a lui il vulcano che, proprio in quel momento, attirava ‘attenzione della piazza affollata coi suoi graziosi giochi di fumo. Corse con lo sguardo lungo la spezzata linea del continente, l’ondulata linea della costa, le vette distanti che vibravano nel bagliore del tramonto; riposò su numerosi paesi, macchie di luce color corallo, tanto lontane da sembrare che appartenessero a un altro mondo. Era un piacere respirare su quelle aeree vette, tra cielo e mare, contemplare il mondo come potrebbe contemplarlo un uccello. Era quasi come nuotare nell’aria…»
da «Vento del Sud»
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