di: Apollonia Striano
L’imprevedibile finale di Il coraggio di rifarsi vivo, ultimo romanzo di Andrea Imperiali, da qualche anno approdato alla narrativa dopo un lungo periodo dedicato con successo al lavoro di creativo pubblicitario a Milano, sembra voler suggellare per sempre una lunga storia dolorosa.
In parte, da una prospettiva e con un’urgenza diverse, Imperiali l’aveva raccontata già in Il figlio ultimo, in cui aveva introdotto il personaggio di Tommaso Sanseverino d’Altavilla, figlio ultimo di una nobile famiglia napoletana, pervicacemente escluso dai fratelli Filippo e Ferdinando –gemelli ed entrambi magistrati- dall’eredità spirituale e patrimoniale che il suo cognome implicava. In Il coraggio di rifarsi vivi l’autore riannoda pensieri e parole ancora intorno a questa anti-saga familiare paradossale e tragica, mettendo a fuoco, con una precisione ed un’evidenza nuove, le difficoltà psicologiche e gli ostacoli affrontati dal protagonista nel viaggio a ritroso verso le proprie origini e dentro di sé.
Privato del suo ruolo in famiglia, su Tommaso i gemelli avevano perpetrato un sistematico, spietato esercizio di rimozione culminato con la dichiarazione della sua presunta morte, dopo che, ormai da tempo a Milano, non aveva dato più notizie. Alla negazione della sua esistenza, come un personaggio pirandelliano aveva reagito improvvisamente, facendo ritorno a Napoli. L’effetto di straniamento innestato era stato deflagrante: proprio al tribunale in cui i fratelli esercitavano con protervia le loro funzioni si era rivolto per ottenere il riconoscimento della sua identità e così intraprendere la battaglia per i suoi diritti. Tra lungaggini giudiziarie e rinvii processuali strategicamente richiesti dai gemelli, Tommaso aveva compreso che per pareggiare i conti gli sarebbe occorsa molta, troppa pazienza.
Si trattava di procrastinare, di aspettare per iniziare a vivere, dopo aver trascorso vent’anni in una città sconosciuta, in cui era per sempre straniero. Qui, tra le macerie di un passato mai dimenticato, aveva “fatto il morto” troppo a lungo: «gli torna alla mente la scritta Che vi siete persi! apparsa sulle mura esterne del cimitero di Poggioreale dopo il primo scudetto. Scudetto che non aveva potuto festeggiare perché era lontano, molto lontano da Napoli. Quella scritta […] era rivolta solo ai veri defunti che non l’avrebbero mai letta, ma doveva essere innocua per i vivi». Innocua per lui non era stata, né era stato indolore sopravvivere in silenzio. Per questo Tommaso comprende che ora è necessario chiudere quest’intreccio grottesco, immaginandone una conclusione estrema e simbolica, definitiva come può esserlo soltanto un nuovo inizio.
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