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Norman Douglas un figlio del sole venuto dal Nord – IL MATTINO
di Giuseppe Merlino
CALABRIA!, appena il nome è pronunziato, un mondo nuovo si presenta alla nostra mente: torrenti, fortezze, tutta la prodigalità dello scenario di montagna, cave, briganti e cappelli a punta; orrori e magnificenze senza fine!».
Così scriveva, nel 1852, lo scrittore e pittore inglese Edward Lear nei suoi diari di viaggio nel sud dell’Italia, e nell’euforico disordine dei dettagli si sente lo sguardo eccitato del paesaggista che scopre cose nuove e si affanna ad annotarle. Le visioni evocate appartengono al regno del pittoresco («fortezze, cave, briganti e cappelli a punta»); ma, insieme col pittoresco, compaiono anche il terrifico, il maestoso e il sublime, quest’ultimo è definito dal doppio esclamativo del brivido e dell’estasi: «orrori e magnificenze!».
Ma l’elenco, sia pur rapido, degli elementi del paesaggio calabrese non sarebbe stato completo senza la notazione antropologica su «costumi e caratteri» e l’implicita domanda che l’accompagna: i calabresi sono uomini «primitivi» o «naturali»? Sono persi nei meandri della storia o sono i superstiti di un’umanità migliore? Vivono lo stato di natura o il colmo del decadimento?
Allearti, infine, Edwar Lear chiede di rinvigorire i poteri evocativi della semplice prosa diaristica. I nomi di Salvator Rosa e della signora Radcliffe conferiscono alla Calabria la nota della natura selvaggia e quel tocco «gotico» grazie al quale i viaggiatori del paese più avanzato d’Europa, l’Inghilterra, rivivevano con compiaciuto orrore il loro stesso passato superato, poiché i romanzi «gotici» avevano provveduto a trasformare la geografia in storia comparata.
La stessa Calabria, attentamente osservata, perlustrata e annotata ritorna in Old Calabria, il più bel libro scritto da Norman Douglas. Uomo del XIX secolo, nonostante il suo lungo tratto di vita novecentesca, Douglas, come i viaggiatori romantici, era alla ricerca di first impressions e di quel che restava della savage Europe o di una qualche wilderness, interpretate, però, come i giacimenti di archeologia culturale o luoghi genealogici originari. Le periferie dell’Europa attiravano per la loro (presunta) mescolanza di passione e superstizione, di paura ed eccitazione, di regressione e istintività: l’esotismo si trovava quasi alle porte di casa. E dunque, la Calabria, profumata di Magna Grecia e di Bisanzio, così faticosa da raggiungere e da percorrere, rappresentava un tesoro intatto da godere a fondo in un journey without maps, in un vagabondaggio ricco di tempo e di libertà.
Se in Inghilterra pioniera del turismo grazie a Thomas Cook intorno al 1880 già si sentiva dire dai più blasés «andiamo ancora all’estero, ma non viaggiamo più», questa malinconica verità non si addice al viaggiatore Douglas, prepotentemente idiosincratico e laborioso.
Norman Douglas che nacque nel 1868 a Thüringen, in Austria, da una famiglia scozzese ma con una madre tedesca, Vanda de Poelnitz, figlioccia della regina Vittoria, ebbe un’educazione germanica, nel liceo di Karlsruhe, il che significava, allora, studiare lingue straniere, musica, scienza, molto latino e un po’ di greco antico. Di temperamento pragmatico e antimetafisico, passò indenne attraverso l’idealismo tedesco, disprezzò l’estetica pur scrivendo un’ottima prosa, vestendo con «l’eleganza di un giacobita inglese in esilio» e coltivando un gusto esigente della bellezza fisica. Ben diverso fu Douglas dall’incantevole e riservato Edward Lear; ma in tutti e due risuonava il richiamo del sud e del Mediterraneo, la speranza di una risurrezione nel battesimo del sole, e un dissenso con il paese di origine (I hate it here).
In modi più spicci e meno guardinghi rispetto al Gide dell’Immoraliste (1902), anche Douglas cercava una grande pulizia dell’anima e del corpo sotto il sole mediterraneo, e una quota non indifferente di piacere fisico. I children of sun (gli italiani) e le hot countries oltre che il basso costo della vita nel sud cospiravano a far sbocciare il represso edonismo dei viaggiatori inglesi.
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