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22 Giugno 2005

Quando a Capri arrivò Steinbeck in divisa – IL MATTINO

di Roberto Ciuni

«Tutti i ragazzi italiani chiamano i nostri soldati “Hey, Joe” e si affollano sempre chiedendo “Hey, Joe, un biscotto” come pulcini chiusi in un pollaio», scriveva Ernie Pyle, considerato il più grande corrispondente dal fronte della seconda guerra mondiale. «Muniti di una ricca provvista di saponi e di sigarette i soldati avrebbero potuto farsi strada nella buona società di Capri ottenuto il permesso di una licenza tra i piaceri di questo meraviglioso luogo del Mediterraneo», scriveva un altro inviato al fronte. Per conquistare l’isola, sigarette e sapone sarebbero stati sufficienti?
Il caso volle che dovesse inaugurare la nuova popolarità dell’isola il futuro premio Nobel John Steinbeck, già meritevole del Pulitzer, imbarcato sul primo cacciatorpediniere alleato giunto nel porto di Capri (12 settembre 1943), l’Uss Knight. Riferì sull’«Herald Tribune» che l’indomani dall’attracco alcuni ufficiali stavano ispezionando la collina alle spalle di Marina Grande quando li fermò una voce sottile che veniva da dietro un muretto. Una donna d’età, piccolissima, con indosso un vecchio abito «che l’avrebbe protetta da dicerie anche a Finchley» li chiamava ansimando. «Sono inglese… E da un anno che non bevo un tè. Forse più di un anno…». «A bordo ne abbiamo, signora. Posso portargliene un pacchetto nel pomeriggio… Ha bisogno di nient’altro?» Lei saltellava eccitatissima, le braccia ai fianchi, quasi mimando una tarantella. «Forse di un panetto di burro. Farò delle focacce e potremo dare una festa… Non sarebbe bello? Non sarebbe bello?» Parlava ripetendo le parole, come una bambina. «Le porterò anche il panetto di burro, signora…». Era inglese ma i suoi parenti vivevano in Australia. Da loro aveva ricevuto solo due lettere in tre anni. «Se ne scrive una, le prometto d’impostarla al primo porto di sbarco…», disse un ufficiale. Lei s’illuminò di felicità. «E quanto ci vuole perché la lettera arrivi in Australia?» «Non so. Qualche settimana, credo…». A questo punto alla donna in nero uscì di bocca uno strilletto: «No-o-o…». Rideva con gli occhi umidi. «Sarà ancora più bello del tè…».
Vero o falso, il personaggio della signora inglese si contrapponeva alla concretezza della guerra nel resto dell’Italia. Quella spietata concretezza che bloccò la penna di Thornton Wilder, anch’egli Premio Pulitzer (Il ponte di San Luis Rey), anch’egli scrittore socialmente impegnato, ma ufficiale dell’Us Army, non corrispondente di guerra. Fu a Napoli, passò da Capri e non ne scrisse nulla.
Chi ebbe a incontrarlo capì ch’era molto toccato dalle condizioni in cui aveva trovato la «città meravigliosa» – Napoli – e poco attratto dal folclore dei soldati in licenza.
Dall’ottobre del ’43 alla primavera del ’44, cioè dall’entrata a Napoli alle battaglie di Cassino, il fronte stallò sanguinosamente tra Campania e Lazio nel pantano d’un inverno di piogge torrenziali. Erano avviliti da ciò che vedevano perfino uomini abituati alla crudeltà della guerra come Robert Capa, fotografo di «Life» che aveva alle spalle l’esperienza spagnola: «Mi trascinai da una montagna all’altra, da un rifugio ad un altro», appuntò su una visita in prima linea, «scattando foto di fango, miseria e morte. Scalai le ripide pendici del Monte Pagano… Avevamo conquistato la vetta il giorno prima e i caduti non erano stati ancora sepolti. Ogni cinque metri c’era una buca con dentro almeno un soldato ucciso. Intorno, una grande quantità di libri tascabili, completamente bagnati, scatolette di razioni alimentari vuote e frammenti sbiaditi dilettere da casa…».
Attenendo novità belliche che non giungevano, Robert Capa ciondolò senza meta per Napoli. La guerra civile spagnola l’aveva fatto conoscere in tutto il mondo, la campagna di Sicilia era stata la sua affermazione definitiva soprattutto per via dell’immagine di un contadino in ciocie e birritta che indica la strada a un soldato americano puntando avanti il bastone. Stava per compiere trent’anni e decise di farlo a Capri insieme con un amico.
«L’isola ci ricevette come uccellini che annunziano il ritorno del turismo. Non ci si poteva riposare. Di giorno, il personale dell’albergo esercitava con noi il proprio inglese dimenticato. Di notte, tutti i chitarristi intonavano serenate sotto le nostre finestre. Quella sera mi sembrava sempre la stessa canzone. Scommisi cinque dollari con il mio amico che si trattava di “Happy days are here again”. Andammo a verificare. Mi sbagliavo: era “Happy birthday to you”. Il mio amico regalò i cinque dollari al chitarrista. Avevo compiuto trent’anni…».
L’indomani, dopo che Capa ebbe fatto il ritratto fotografico a Benedetto Croce nel giardino di Villa L’Oliveto, i due andarono a caccia di souvenirs. Capa s’era fissato: voleva qualcosa «che stesse bene con il rosa» pesando di portarlo a Pinky, una che aveva conosciuto a Londra. «Trovammo un negozietto di vestiti con una ragazza dai capelli neri, graziosa. Le descrissi Pinky, cercai di farle capire che le somigliava, e indicai un corallo per spiegare quale colore cercavo. Lei cominciò a sciorinarmi davanti agli occhi calze di seta, sottovesti ricamate, gonne… Alla fine, tanto i muri del negozio quanto il mio portafoglio non ne potevano più. Mentre la ragazza impacchettava gli acquisti, la invitai a cena. Prese un pezzetto di corallo, me lo pose in mano e mi rispose di no con la testa…».

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