Cerca nel sito

Seguici

Iscriviti alla newsletter

24 Febbraio 2016

Caruso, la leggenda del tenore dei due mondi – IL MATTINO

di Francesco Durante

Il nuovo libro di Francesco Canessa “Ridi pagliaccio! Vita, morte e miracoli di Enrico Caruso” (La Conchiglia, 206 pagine, 20 euro) non è “soltanto” una biografia del sommo cantante, ma anche un memoir familiare dell’autore, e dei suoi avi titolari della “Canessa Antiquaires”, ditta che aveva tre sedi – a Napoli, Parigi e New York – affidate ad altrettanti fratelli i quali tutti, specie Amedeo che aveva bottega su Fifth Avenue, con Caruso ebbero relazioni piuttosto strette, assistendolo nella sua passione di collezionista (soprattutto di numismatica), ospitandolo a Napoli e Capri, accorrendo a ogni sua necessità e, infine, occupandosi delle pratiche relative alla costruzione della sua tomba napoletana. I Canessa, insomma, sono molto presenti nel libro, e non abusivamente. E forse proprio per questo motivo la lettura risulta più calda, gradevole, partecipata.

Ciò non impedisce all’autore, critico musicale ed ex sovrintendente del San Carlo, di trasferirvi anche la sua competenza musicale, e di spiegare bene la sostanza, la qualità, la novità della voce di Caruso, il perchè della sua fama e il mistero di una perfezione attinta a prezzo di ferrea volontà da lui che, figlio della Napoli più povera, non aveva potuto giovarsi di un’educazione regolare. Il segreto di Caruso potrebbe stare proprio “in questa formazione atipica e sostanzialmente anarchica”. Ecco, per dire, la leggendaria esibizione del 1908 al Met, dove Caruso-Radames domina i tre si bemolle dell’aria “Celeste Aida” che “sono e saranno per qualsiasi tenore un ostacolo difficile da superare”. Ed ecco i suoi rapporti coi direttori d’orchestra, in primis Toscanini, cogli impresari e con gli altri cantanti, dai napoletani d’America Scotti e Amato, a Scialiapin, alla bellissima Lina Cavalieri (che nel 1906, duettando con lui nella “Fedora” di Giordano, allorchè Enrico pronunciò la frase “Fedora io t’amo!” gli cade tra le braccia e davvero gli scoccò un bacio appassionato mentre calava il sipario) e gli altri molti di cui qui si racconta.

Canessa, con puntiglio e acribia, demolisce alcuni luoghi comuni duri a morire. Come il supposto “anatema” del tenore nei confronti della sua città dopo i fischi al debutto del 1901 con “Elisir d’amore”. Per l’autore è una “degenerazione massima in stile Gomorra di un autentico falso storico”, e per spiegare come andarono le cose rilegge a uno a uno i giornali dell’epoca, “uniche fonti certe, evidentemente trascurate per colpa o dolo da chi non ha inteso rinunciare a un pretesto narrativo tanto accattivante”.

Tra i molti intarsi di memoria familiare, gustosissimo è quello relativo alla scoperta del “Tesoro di Boscoreale”, quel “favoloso insieme di ori e argenti” rinvenuto nel 1895 tra i ruderi di una villa rustica romana alle falde del Vesuvio. Canessa, che spiega come una parte delle antiche monete finisse nella collezione Caruso, svela i dettagli di un autentico giallo archeologico in cui gli antiquari di famiglia ebbero gran parte.

A New York Caruso visse per 18 anni, vi celebrò i maggiori trionfi e vi conobbe i momenti più difficili. L’Italia era la sua villa a Lastra a Signa, fuori Firenze, e ovviamente il golfo di Napoli, dove venne a morire. “Napoletano”, però, fu il modo che scelse per sposare, a 45 anni, la ventenne Dorothy Benjamin malgrado la fiera contrarietà del padre di lei: una “fujuta” che precedette le nozze riparatrici del 1918. E napoletane furono le parole dette al fratello prima di spirare al Grand Hotel Vesuvio: “Giovà, affacciate ‘o balcone e salutame ‘a muntagna!”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Anteprima carrello

Il tuo carrello è vuoto
Le spese di spedizione verranno calcolate in Cassa, al momento della selezione del Paese di consegna.

Account utente

Per proseguire con l'ordine, correggi gli errori evidenziati in rosso