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8 Gennaio 2016

Caruso, una magnifica ossessione – CONFRONTI ON LINE

di Francesco Tozza

Strano mondo quello del teatro d’opera, con le sue luci e le sue ombre: fascinoso, seducente, estremo quando non addirittura irreale, per le travolgenti passioni che animano i suoi personaggi, ma molto spesso anche, e più drammaticamente, i relativi interpreti, lontano dalle luci della ribalta; immobile nel suo innegabile splendore, quasi sempre legato – come i meravigliosi teatri che tuttora, per lo più, lo ospitano – al secolo che ha segnato l’epoca d’oro della sua vita; carico di un’aneddotica, troppo spesso banale e tragica insieme, di cui si cibano volentieri i suoi sempre numerosi fruitori, mai come nella pratica di questo linguaggio portati a cancellare, o comunque smorzare, i confini fra finzione e realtà, equilibrio e follia. I suoi eroi (e le sue eroine), caduti dal piedistallo dove li avevano innalzati vecchi e nuovi classicismi, hanno finito con l’incarnare vissuti più umani, forse troppo umani, contagiando in egual misura attori e spettatori, cantanti e loro fans, innescando processi di immedesimazione, a sipario aperto o chiuso, forieri di magnifiche ossessioni, di facili agiografie, di sublimanti reinvenzioni e sublimate manchevolezze, in una quotidianità evidentemente bisognosa di riscaldarsi al tepore fantasioso del melodramma.

Di questo mondo, incantato e crudele al tempo stesso, capace di innalzare i suoi protagonisti a vertici di popolarità inimmaginabili (almeno fino a qualche decennio addietro), per poi relegarli – giocoforza, si direbbe – ad un destino di desolata solitudine esistenziale, resta figura emblematica quella del “grande Caruso” (1873-1921), il tenore napoletano che nei primi decenni del secolo scorso incarnò il mito della voce mediterranea, ardente e patetica insieme, allargandone cosiderevolmente la geografia della fruizione alle Americhe (gran parte della sua carriera si svolse, infatti, al Metropolitan di New York), e anche oltre, per il noto coinvolgimento nel pianificato business della nascente industria discografica. Ancora agli inizi degli anni cinquanta, a circa un trentennio dalla morte, continuava ininterrottamente l’eccezionale successo mediatico, grazie allo sfarzoso film che la M-G-M aveva costruito attorno alla sua vita, romanzandola in modo avvincente ma (ovviamente!) inattendibile. Mentre un altro astro, al femminile questa volta (la Callas) e nella seconda metà del secolo, contribuiva ad alleggerire, parzialmente almeno (pur nello stesso clima, comunque), il peso ingombrante di una inovviabile memoria storica, molte biografie si susseguivano, e si susseguono ancora, per fortuna essenzialmente sulla carta stampata, in riferimento a quello che rimane in ogni caso il più celebre tenore di tutti i tempi: biografie non sempre aliene da intenti agiografici o interessi cronachistici, con buona pace degli studi scientifici, che proseguono ovviamente per conto loro. Anche se poi è vero che, nello specifico, le une non possono fare a meno degli altri, miracolosamente integrandosi a vicenda, per non cadere nella metafisica della vocalità pura e allo stesso tempo non privare una materia così accattivante dell’ineludibile contributo della storiografia, forse per una volta un po’ troppo curiosa, magari invasiva se non proprio banalmente pettegola!

L’ultima biografia carusiana, appena uscita (a fine novembre dell’anno testè trascorso), reca la firma di Francesco Canessa, noto saggista e critico musicale su importanti testate (Il Giorno, Roma, Il Mattino), già sovrintendente al San Carlo di Napoli negli anni 1982-’87, quindi nella stessa veste in quel di Macerata (dove ha curato per circa tre anni le stagioni dello Sferisterio, contribuendo però anche alla rinascita del più importante teatro della città marchigiana, il Lauro Rossi); in seguito é tornato come sovrintendente, dal 1990 al 2001, al San Carlo di Napoli (la quale fondamentalmente resta la sua città, anche se, originario di Capri, ha fatto i suoi studi universitari a Milano). E chi ha frequentato il Massimo napoletano nei primi anni ’80 non può certo dimenticare il livello cui lo portò una conduzione competente e variegata, dopo la crisi degli anni immediatamente precedenti: stagioni d’opera con titoli e cantanti popolari (Pavarotti fra gli altri), ma non solo, fortunatamente; perché a caratterizzarle ci fu anche il ripescaggio di un settecento troppo spesso obliato nella città che pur ne conobbe i vertici musicali (con la regia di De Simone ci furono, ad esempio, il Flaminio di Pergolesi e Crispino e la comaredei fratelli Ricci); per non dire della coraggiosa offerta di un Novecento musicale, assai di rado qui frequentato (ilWozzeck di Alban Berg, con i complessi della Deutsche Oper di Berlino) e della concertistica, che vide sfilare sul podio direttori come Pretre, Maazel, Sinopoli, Celibidache o solisti come Ciccolini, Marta Argerich, e tanti altri ancora.

Ma alla indubbia competenza, messa in rilievo certamente anche dalle scelte operate come sovrintendente, oltre alla sottile erudizione e all’arguta leggerezza versate nei precedenti suoi saggi sull’opera lirica, che tali qualità evidentemente richiedono se si vogliono affrontare miserie e grandezze del settore, Canessa aggiunge dell’altro. Ha dalla sua qualche carta in più, come rivela questa sua recente, brillante fatica (“Ridi pagliaccio!”), per cui può davvero raccontare Vita, morte e miracoli di Enrico Caruso (recita così il sottotitolo del saggio), in quanto discendente diretto di quei tre fratelli Canessa (Cesare, Amedeo, Ercole, il primo dei quali suo nonno paterno), “titolari di una delle maggiori ditte antiquarie e case d’asta d’inizio secolo, con sedi a Napoli, Parigi e New York”, con i quali il grande tenore ebbe, anche per i suoi interessi culturali nel settore, particolare dimestichezza e, con il primo in particolare, rapporti di vera amicizia. Ciò a prescindere dai rapporti di parentela venutisi a creare dopo il matrimonio fra il secondogenito del tenore, Enrico jr, e “la cara e dolce Elena”, sorella minore del padre di Francesco Canessa. Il quale, dunque, avrà certo beneficiato di tali fattori, potendo consultare materiali e avere informazioni di prima mano, oltre a respirare – per così dire in famiglia – l’atmosfera più adatta alla stesura della suddetta biografia.

Di questa si offrono, così, particolari noti e meno noti, con riferimento soprattutto (ma non soltanto) ai diciotto anni (dal 1903 al 1920) di quasi esclusiva presenza del cantante sui palcoscenici americani, del Metropolitan in primis, accompagnandoli con lacerti storiografici e giudizi critici riguardanti anche compagni d’arte o comunque altre personalità di spicco nel settore, sempre accattivanti perché provenienti da un tempo in cui “l’opera lirica entrava nell’ordinario della vita, suscitava discussioni, passioni, entusiasmi anche fuori delle platee e dei ridotti”. Si passano, così, in rassegna alcuni dei formidabili, continui successi ottenuti al Met: dal debutto con Rigoletto, nel 1903, all’ultima interpretazione, con la misconosciuta La Juive di Halévy, nel novembre 1919, quando il subdolo cancro che ne minava i polmoni finì con l’impedirgli l’appena iniziato impegno in ruoli nuovi, magari più complessi o di maggiore peso artistico, come il tanto vagheggiato Otello di Verdi, studiato e infine perfino programmato per il settembre 1921, con al fianco lo Jago del suo grande compagno d’arte, Titta Ruffo, purtroppo non andato in scena per la morte che lo colse nell’agosto di quell’anno. Ma di quelle stagioni al Met non si citano, sterilmente, solo titoli e interpretazioni di un baritenore (questa la sua iniziale vocalità, in lento e progressivo cambiamento) che fece di una dimensione artistica (il verismo), ambigua e in seguito – soprattutto nel suo campo – piuttosto deleteria, un valido strumento per imprimere verità a personaggi, finalmente “sdogananati dal fastidioso manierismo del passato”. Si fa riferimento, anche, ad aspetti, quanto mai attuali, della conduzione manageriale di quel teatro, passata – proprio negli anni della presenza di Caruso – alle mani (e al cervello!) del celebre Gatti Casazza, già soprintendente della Scala, ma ormai “stanco” del teatro milanese; come Toscanini del resto, suo direttore musicale: entrambi approdati, quindi, al teatro newyorkese, dando inizio ad un nuovo corso che tentò di armonizzare volto artistico e necessità economiche (il problema di sempre!) per la sopravvivenza di un organismo in crisi. Non senza qualche contrasto, però, e talune ambiguità, in quello che fu definito – forse non a torto – un vero e proprio processo di italianizzazione del Met, rendendo per esempio difficile (presto, anzi, facendola scomparire) la convivenza, pur così intrigante, del binomio Toscanini-Mahler (quest’ultimo allora conosciuto soprattutto come direttore d’orchestra e, comunque, incautamente messo un po’ all’angolo).

I rapporti, pur fondamentali, con il celebre teatro newyorkese non esaurirono, comunque, quell’importante periodo della vita di Caruso, che sicuramente fece di tutto per non diventare “un americano per forza”, mai rinunziando alle sue “vacanze italiane”, un po’ come tutti i “pendolari dell’Atlantico”, fatta eccezione per i quasi tre anni (1915-’18) nei quali la guerra, in particolare i sommergibili tedeschi, “rendevano le traversate una scommessa dalla posta altissima”. Canessa, in pagine dense e appassionate, segue Caruso in queste fughe o evasioni da una permanenza che non volle mai si trasformasse definitivamente in “soggiorno obligato”: certo non gli bastavano le pur frequenti sortite nel negozio al 479 della Fifth avenue, uptown Manhattan, dove la Canessa Antiquaires, soprattutto il piacevole conversare con Monsieur Amedeo, uno dei tre fratelli della celebre ditta, lo distraevano dai sempre più pressanti impegni artistici. Col passare del tempo finì col preferire, o comunque desiderare (certo anche per la sua dimensione simbolica), il contatto diretto, anche se più difficile, con la Casa Madre della ditta, quella in piazza dei Martiri a Napoli; forse non proprio “per la soddisfazione di poter avere pezzi artistici di notevole rarità”, ma per vincere l’incombente solitudine: quella nostalgia delle radici di cui finì col soffrire pure lui, anche se non “rimasto posteggiatore nell’animo” o “emigrante con la canzone napoletana nella valigia”, secondo l’etichetta che una banale aneddotica gli avrebbe in seguito affibiata. Al suo paese (intendendo l’espressione nel suo più ampio significato, non comprensivo soltanto della città che gli diede i natali) rimase continuamente e sempre più attaccato (“voglio morire nel mio paese”, avrebbe dichiarato all’ambasciatore d’Italia che venne a trovarlo quando fu sicuro che il cancro al polmone aveva decretato la sua fine). Vi rimase attaccato, anche se vi cantò poco, probabilmente schiacciato più dalla terribile macchina organizzativa che il mondo della lirica era ormai diventato che dal famoso risentimento per i fischi che ne avrebbero accompagnato il debutto nell’Elisir d’amore al San Carlo. Quei fischi in realtà non ci furono, e fa bene Canessa – documentandolo – a smentire la cosa: nonostante qualche perplessità del severo Saverio Procida su “Il Pungolo”, circa il non ancora possesso di “una sapienza tecnica” nel disciplinare “spontanei doni” e “note di una potenza rara”, il successo ci fu, con applausi e bis “ a furor di popolo” anche nelle repliche (ma nelle recite alla Scala – direttore Toscanini – immediatamente precedenti, ci fu addirittura il tris della celebre romanza, Una furtiva lacrima, nonostante la nota inflessibilità del grande direttore di fronte a certe manifestazioni di fanatico entusiasmo!). L’episodio, come tanti altri di cui è ricco il libro, che peraltro si avvale di un notevole apparato iconografico, ci porta alle sublimi contraddizioni del teatro d’opera di cui si diceva all’inizio; ma è bene, a questo punto, lasciare al lettore il piacere del testo.

 

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