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12 Giugno 2004

Castelar e il chiasso dei napoletani, «greci degenerati» – IL MATTINO

di Teresa Cirillo Sirri

Come altri scrittori iberici che visitano Napoli tra l’Otto e il Novecento, Castelar contribuisce a colorire, nel bene e nel male, il variegato affresco partenopeo, ad analizzare con acribia e partecipazione emotiva una città che può suscitare ogni genere di reazione, tranne l’indifferenza. Castelar spesso mette a confronto la vita partenopea con quella che si conduce nelle città spagnole e non tarda a rintracciare un sotterraneo legame culturale che ancora unisce l’Italia meridionale alla Spagna. Nonostante ciò, Napoli riesce ugualmente a sconcertarlo; e i sentimenti contraddittori che lo animano sono gli stessi che si agitano in tanti altri forestieri approdati sulle rive del golfo. Con la sua formazione di storico e di statista, per prima cosa Castelar prende atto dell’importanza politica ed economica di Napoli, «la prima delle città italiane», e una delle prime in Europa.
Ma la considerazione sul primato della «bellissima capitale» presto passa in secondo piano. Nella Roma papale Castelar aveva trovato austerità e silenzio. Dopo pochi giorni trascorsi a Napoli, la sua cronaca s’impernia su una sola nota dominante, il caos cittadino che è di gran lunga superiore a quello di Siviglia odi Valenza. Alla fine, frastornato dalla quantità di veicoli, assediato da cocchieri invadenti, da pizzaioli che quasi gli cacciano in bocca le loro «frittelle unte e ribollenti», sbotta in una esasperata raccomandazione: «Quelli che amano il chiasso, corrano pure a Napoli!».
Ma in qual modo Castelar cerca di trovare una spiegazione per questa inesauribile frenesia? Sollecitato dalla malia di un sogno paganeggiante, suggestionato dal presenza del Vesuvio, gigante che dispensa «con uguale forza la vita e la morte», l’insofferente viaggiatore ritiene di aver trovato una valida giustificazione: i napoletani hanno bisogno di adorare rumorosamente qualcosa con l’esaltazione propria dei meridionali. C’è la natura ardente del vulcano in questi «greci degenerati che vivono col sorriso sulle labbra, continuamente sfiorati dalla morte, minacciati dal vulcano con gli stessi cataclismi che hanno seppellito Pompei ed Ercolano». Nell’ossimoro ininterrotto che coniuga l’urlo vitale col silenzio della morte è il segno controverso di Napoli, la città che l’eccentrico Gómez de la Serna ha definito un «Averno celestiale» che a volte prende apparenza mortale solo per esaltare ancora di più la sua sopravvivenza».
Il gusto classicheggiante di Castelar che soggiorna due volte sotto il «chiaro, ellenico cielo» di Capri cantato da von Platen, è certamente in sintonia col nostalgico miraggio della grecità evocato da molti stranieri.

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