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29 Luglio 2005

Dopo il referendum, le scelte della politica – IL MATTINO

di Eugenio Mazzarella

Esistono dei margini di mediazione per un’iniziativa politica sulla legge per la fecondazione assistita, dopo l’esito del referendum? È questa la domanda che va posta. Nessuno dei più consapevoli esponenti dei due fronti politici e ideologici che si sono misurati nel referendum può, anche a urne chiuse, dare per scontato che la legge possa funzionare così com’è, senza lacerare di nuovo la coscienza pubblica del paese. Se il paese con l’astensione al referendum ha deciso che la legge era necessaria, e che la pretesa radicale di un’abrogazione totale non aveva riscontro nella sua sensibilità, così come non l’aveva avuta davanti Corte, è anche vero che probabilmente l’astensione, largamente superiore alle previsioni, e trasversale agli schieramenti politici, è stato un segnale alla classe politica. Un segnale che intendeva dire che materie legislative così complesse sono, innanzitutto, materia parlamentare. Per questo ritengo che, a urne fredde e prima che ci si accalori per le prossime, il dibattito pubblico tra le parti farebbe bene a non «non buttare in politica» per così dire, come ha fatto nel referendum, il risultato che è uscito dalle urne. Non bisogna chiudersi nell’aria di bottega della conta tra vincitori e vinti.
Il dibattito con Livia Turco e Francesco D’Agostino intende dare un contributo a quest’analisi di questo tema, alla luce di un’idea guida: ovvero che un’etica pubblica non può essere un’etica di parte, e peggio ancora partigiana, ma deve sempre sforzarsi di trovare un minimo comune denominatore condiviso, almeno sul piano della legislazione positiva che al dibattito consegue. Nello specifico ritengo che il Parlamento era e resta il luogo privilegiato per migliorare la legge. A patto che non si facciano crociate e non si continui a usare la fecondazione assistita per aiutare la procreazione o l’uccisione in vitro di questa o quella leadership o linea politica. In concreto, questo potrebbe significare limitare il campo degli interventi alla legge solo agli aspetti referendari strettamente attinenti alla fecondazione assistita, cioè agli ambiti di quelli che sono stati i quesiti due e quattro del referendum. A questi quesiti personalmente ho votato sì, ritenendo non difficile sul piano etico un accordo tra laici e cattolici sul ricorso a più di tre embrioni nelle fattispecie terapeutiche che lo richiedessero, concedendo l’accesso alla tecnica anche a coppie portatrici di certe e severe patologie trasmissibili al concepito; così come pure un accordo sull’eterologa, i cui dubbi etici e di diritto possono trovare una fonte ragionevole di regolazione normativa alla luce di quell’eterologa «naturale», che è l’adozione.
Ho invece votato no, e in modo convinto, ai quesiti uno e tre, perché non immediatamente attinenti alla fecondazione assistita, e fortemente orientati in senso laicista, più che laico, sul piano ideologico; proposti in modo acritico all’ombra di una posizione che è suonata più o meno come «libera scienza, in libero stato». Nutrendo seri dubbi, che la scienza possa chiedere oggi per sé privative e privilegi di una nuova chiesa, e di un nuovo credo integralista, da laico ho votato no. Come pure ho votato no al terzo quesito, che non voleva riconoscere al concepito eguale tutela giuridica degli altri soggetti coinvolti nell’applicazione della legge.
Da decenni l’etica lavora non solo sulle relazioni in atto, ma su quelle potenziali, su quelle future: sui diritti dell’ambiente per quelli che verranno dopo di noi, ad esempio. Come pure lo stato pianifica la tutela giuridica dei futuri pensionati, cioè di mere figure sociali non ancora in essere. Tanto più sembra necessario tutelare, come se fosse venuto al mondo, chi ha già cominciato a farlo sul piano biologico. Mi sembra un’osservazione di buon senso, non pedanteria clericale. La riformulazione necessaria della legge 40, in parlamento, dovrebbe partire da un approccio di questo tipo.

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