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Enrico Caruso, biografia di una voce unica – WWWITALIA
di Eleonora Davide
L’ultimo lavoro di uno dei più esperti conoscitori del teatro lirico del Novecento, è dedicato al grande tenore Enrico Caruso; abbiamo voluto fare a Francesco Canessa delle domande, approfittando della sua simpatia e della sua disponibilità per anticipare qualche interessante aspetto del libro e consigliarlo per la lettura ai melomani e ai curiosi dell’affascinante mondo della musica d’opera. La settimana prossima il libro sarà presentato al Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino nell’ambito della rassegna Parole di Musica organizzata dal Corso di laurea in Discipline storico critiche e analitiche della musica.
Perché ha scelto di scrivere su Enrico Caruso?
Semplicemente perché mi sono accorto che la bibliografia su di lui era articolata in maniera agiografica. Venivano trascurati sistematicamente due aspetti fondamentali: l’importanza di Caruso nella storia della vocalità e in quella del costume. Con una lunga ricerca durata due anni da me condotta in particolare sulla cronologia storica del Metropolitan di New York, cui ho avuto fortunatamente accesso, ho potuto raccogliere testimonianze nuove sulla figura del musicista. Così ho trattato l’aspetto della vocalità di Caruso, che è stato caposcuola assoluto in questo campo, stravolgendo il modo di cantare, in un periodo in cui regnava il belcantismo ricco di trilli baroccheggianti. Lui impose, da completo autodidatta, una vocalità pulita interpretando il proprio tempo, secondo i canoni dell’estetica verista, dando risalto alla “parola scenica” di verdiana memoria. Ha esportato questo “canto vero” in America, dove ha fatto veramente fortuna. Indimenticabile, a proposito, la conclusione che dette all’aria Furtiva lagrima, dell’Elisir d’amore, completando la frase finale «si può morir…. » con «d’amor», interpretando il vero senso dell’intera aria, la cui esecuzione in questo finale veniva lasciata per indicazione in partitura ad libitum. Fino ad allora gli interpreti avevano riempito quel finale di trilli e gorgheggi, ma da quell’esecuzione di Caruso il finale fu per tutti sempre il suo.
Altro aspetto che ho voluto trattare nel libro, come dicevo, è stato il personaggio. Quando Caruso si recò in America, non da emigrante come si è voluto anche lasciare credere recentemente in un convegno a lui dedicato, lì si stava sperimentando l’uso del grammofono che, chiamato talking machine, era usato per registrare il parlato. Fu con il tenore italiano che si ebbe la prima incisione musicale ad opera della RCA Victor e questo legò per sempre il personaggio alla diffusione dell’opera al di fuori delle sale teatrali, decretando il successo della sua voce e dello strumento, di cui Caruso pretese anche le royalty sulle vendite. Caruso fu la prima creatura dello star system americano e, anche se soffriva le regole del sistema, di contro veniva gratificato dal successo e dagli incassi. Nel secondo decennio del Novecento in America gli Italiani erano guardati con una certa diffidenza, erano immigrati, come lo sono spesso oggi i profughi da noi, e molte volte erano coinvolti nella malavita. Caruso divenne simbolo dell’Italia che piaceva, come ci ricorda anche l’episodio in cui tra il primo e il secondo atto della rappresentazione del Sansone e Dalila al Metropolitan, Caruso si presentò sulla scena avvolto nel tricolore per annunciare la fine della prima guerra mondiale.
Nel suo libro tratta anche della ossessione che Caruso aveva per la morte in scena, di cosa si tratta?
Tutte le biografie riportano la morte del cantante come una cosa improvvisa, ma la verità è che da tempo soffriva e aveva capito che la fine si avvicinava. Questo stato d’animo influì certamente sulle scelte artistiche che fece nell’ultimo periodo, in cui si dedicò ad opere più drammatiche, del teatro francese, e molto distanti da quelle per cui era noto. La morte in scena lo ossessionava dopo che fu colpito dalla perdita di un collega nel proprio camerino e da quell’episodio cercava di rappresentare al meglio quelle situazioni drammatiche. Voleva trasferire la drammaticità dalla vita alla scena, credo per sublimare il dolore.
Tra la sua famiglia e quella di Caruso si sono stabiliti anche rapporti di parentela, è vero?
Sì, una sorella di mio padre ha sposato il secondo figlio di Enrico Caruso. Le famiglie avevano avuto molti rapporti perché mio nonno e i suoi fratelli erano noti antiquari con attività a Napoli, Parigi e New York. Caruso, come era stato autodidatta nel canto, lo fu anche nella numismatica in cui era ferratissimo, un vero esperto e grande collezionista. Quando morì a Napoli fu sepolto nella cappella della famiglia Canessa nel Cimiterò di Santa Maria del Pianto e restò lì finché non fu eretta una cappella Caruso affianco a quella.
Ma davvero fischiarono Caruso al San Carlo a Napoli?
Niente affatto. Si tratta di una leggenda senza alcun fondamento. Piuttosto i giornali dell’epoca – il Pungolo, il Roma e il Mattino – riportano il successo non solo della prima ma anche delle repliche della recita incriminata, con richieste di bis e consenso di tutto il pubblico. Da allora comunque il tenore non si esibì più a Napoli, ma neanche nel resto d’Italia, perché aveva troppi impegni in America. Cantava all’epoca anche 3 o 4 volte a settimana e opere diverse; oggi nessuno lo fa. A Napoli veniva in villeggiatura.
Quali sono i prossimi appuntamenti per il tour di presentazione del suo libro?
Beh, sarò a Roma in questi giorni, la settimana prossima il 16 febbraio ad Avellino al Conservatorio “Domenico Cimarosa” poi ancora in giro fino a maggio quando presenterò il libro alla Scala di Milano.
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