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29 Agosto 2014

Indovinate chi c’era a Capri negli anni Cinquanta – SETTE, CORRIERE DELLA SERA

di Antonio D’Orrico

 

Mentre i principi di Sirignano e i duchi Serra di Cassano ricevono nelle loro ville, alla sede della Camera del Lavoro bollono pentoloni di pasta e fagioli per sfamare a poco prezzo i compagni in visita che non possono permettersi di pagare il conto di una cena al Quisisana o da Gemma (la trattoria di Mario Soldati e Graham Greene). Qualche ora più tardi al Tragara Club spopolerà Roberto Muralo con la sua chitarra e un filo di voce e si apriranno le danze al Clubino dei fratelli Verbinshac, il locale notturno più prestigioso, arredato come la cameretta di un pescatore però capace di rivaleggiare con il Jimmy’s di Parigi e il 400 di Londra. E Edda Ciano, con tutto il suo tenebroso passato sulle spalle, passeggera in compagnia del gioielliere Chantecler.

Marcella Leone De Andreis, non nuova a queste imprese, ha scritto un affollatissimo, filologicissimo, formidabile «C’era questo, c’era quello» della Capri Anni Cinquanta. Vi campeggiano playboy (Dado Ruspoli, Rudy Crespi) e scrittori (Alberto Moravia, Elsa Morante), criminali (Lucky Luciano) e aristocratici (Klaus von Bulow, la marchesina Carlottina del Pezzo di Caianello), rivoluzionari (Palmiro Togliatti) e miliardari (Onassis). Capri ha già ispirato una fiction televisiva ma è ben poca cosa rispetto alla serie (tipo Gomorra, anche nel vero senso della parola) che si potrebbe trarre dal romanzone (verità) scritto da Marcella Leone. Giro la proposta a quelli di Sky che sono bravi a fare queste cose. Un kolossal d’epoca dalla trama avventurosa. Ci sono i furti di gioielli nei grandi alberghi ai danni di attempate signore americane in cerca di un ultimo (o di un primo?) amore. C’è Francesca Ruspoli arrivata a Capri giovane sposa, «fresca come un fiore», che si innamora delle camicie alla moschettiera confezionate alla Parisienne. Pochi mesi dopo Adriana Di Fiore, figlia della proprietaria della boutique, scopre, aiutando Francesca a provarne una, che la sposina ha le braccia segnate da lividi e buchi. Il suo destino è scritto: da lì a qualche anno volerà dalla finestra del suo appartamento al quarto piano di una casa milanese. C’è la scena, imperdibile, dello sbarco sull’isola, tra ali festanti di folla, di Bob Homestein, miliardario americano che ha fatto fortuna con il cibo in scatola per gatti. Rimarrà a Capri per un ventennio diventando il re dei gay locali. È un romanzo di forti contrasti quello della Capri Anni Cinquanta. Alla  massima spregiudicatezza si oppone la censura più bigotta: i democristiani pretendono di regolare, con appositi manifestini, le misure dei bikini e degli slip maschili, troppo scollati i primi, troppo scosciati i secondi. La crociata sfocia nella pochade (come quasi ogni fatto di cronaca rosa a Capri).

Tra le scene madri c’è quella di Totò, villeggiante abituale, che dopo il consueto bagno ai Faraglioni siede a uno dei tavoli di Luigi per mangiare il suo quotidiano piatto di spaghetti al sugo di pesce.  Orrore! Quel giorno, per problemi di approvvigionamento, di pesce non c’è neanche l’ombra. Ma il principe De Curtis, da esperto capocomico, non si perde d’animo. Fa un sopralluogo in dispensa e ordina di buttare in padella alla sanfason tutto ciò che è avanzato (salsa di pomodoro, olive e capperi, aglio, olio e peperoncino). Nasce così quel giorno ai Faraglioni uno dei presidi gastronomici della cucina italiana: gli spaghetti alla malafemmina. Così lo chiamò il principe ma poi il volgo preferì la più corriva definizione di spaghetti alla puttanesca.

La Capri degli anni Cinquanta raccontata da Marcella Leone De Andreis potrebbe ispirare una serie televisiva nello stile di Magic City, la fiction dedicata alla Miami dello stesso periodo. Uno dei protagonisti sarebbe sicuramente Lucky Luciano, il grande gangster che, dopo aver aiutato il governo americano nello sbarco in Sicilia, era stato rispedito in Italia con il divieto di ritornare negli Stati Uniti. Luciano passava le sue giornate capresi seduto al Bar Vuotto circondato dai suoi tirapiedi. Il boss aveva un’aria dimessa. Unica eccezione al suo basso profilo, l’apparizione, ogni tanto, al suo fianco di bionde assai vistose. In realtà, da Capri Luciano continuava a dirigere il traffico internazionale di droga e usava come copertura un’insospettabile fabbrichetta di elettrodomestici e articoli sanitari che aveva aperto a Napoli. Alloggiava al Quisisana, allora l’hotel migliore, ed era benvoluto dagli abitanti dell’isola. Sapeva essere generoso e aveva senso estetico: «Per ringraziare il marinaio che lo ha accompagnato a visitare la Grotta Azzurra, preso dall’emozione per lo spettacolo si è sfilato dal dito un anello con un grosso brillante e glielo ha lasciato come mancia». La magia di Capri colpisce anche i cuori più duri, il puntatone del serial dedicato a don Luciano (come lo chiamavano i capresi) si può chiudere con due immagini a scelta. Nella prima, il gangster (sempre con il suo sguardo lontano, distratto) fa volteggiare impeccabilmente in un tango una delle sue bionde sulla pista dello Zum Kater o dell’ABC. Nell’altra scena, Lucky confessa in broccolino stretto che Capri gli piace molto ma sente tanta nostalgia della sua New York.

Al puntatone sul gangster può seguire quello sugli intellettuali, da sempre grande attrazione dell’isola, il più folcloristico fu Curzio Malaparte che con l’isola ha avuto sempre un rapporto di amore e di odio ma che a Capri ha realizzato la sua opera più grande e suggestiva. Non parliamo di romanzi ma della casa che lo scrittore costruì sulle rocce di Punta Massullo. Con intuito geniale, Malaparte affidò il progetto ad Adalberto Libera ma con intuito altrettanto geniale disubbidì a un certo punto alle direttive dell’architetto e fece di testa sua. Il risultato è un capolavoro (che Malaparte cercò poi di lasciare nel suo testamento alla Cina di Mao, sberleffo finale di un intellettuale che era stato fascista, antifascista, cattolico, comunista e anticomunista).

Ma è stato con commozione che ho scoperto, leggendo questo bel libro su Capri (che è un libro di storia d’Italia del dopoguerra, finalmente ben raccontata), che a Villa Ceselle, dove mi è capitato di stare qualche giorno, Alberto Moravia scrisse alcuni dei suoi romanzi più belli (Agostino, La romana, L’amore coniugale), mentre in un’altra camera Elsa Morante lavorava a Menzogna e sortilegio. Poi la sera Moravia lo trovavi, magari, a fare il giurato al concorso di bellezza per l’elezione di Miss Capri. Al mare, Moravia andava allo Scoglio delle Sirene alla Marina Piccola. Qui una volta vide una donna che camminava incessantemente sulla piattaforma di uno stabilimento e che confessò a un’amica: «Lo faccio per farmi scendere la panza, ho mangiato tanta pasta e lenticchie!». La frase folgorò il grande romanziere. Mai dagli anni Trenta, quando aveva cominciato a frequentare l’isola, Moravia aveva sentito pronunciare la parola «panza» a Capri. Così capì che qualcosa stava cambiando per sempre.

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