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30 Luglio 2018

La vita da esteta di Fersen nella Capri di cent’anni fa isola del gioco e dell’oblio – LA REPUBBLICA NAPOLI

di Pier Luigi Razzano

Capri e non più Capri. È più che mai valido, e quanto esatto il titolo del celebre memoir di Raffaele La Capria del 1991 per accorgersi dei cambiamenti dell’isola oggi. Sbarchi selvaggi di un turismo giornaliero mordi e fuggi, folla stordita in Piazzetta, passeggiata tra i grandi marchi, selfie con star e starlette, eventi. Modalità turistiche figlie del nostro tempo spingono Capri in direzione di un’omologazione che in realtà non le appartiene. L’isola nonostante i colpi resiste anche in tempi digitali e di esclusività a ogni costo sotto forma di visita guidata o di esperienza sensoriale attraverso il gourmet: resta fieramente aspra, sensuale, sé stessa, unica. Basterebbe allontanarsi appena dal flusso della folla, un po’ come faceva Henry James appena arrivava, andando in cerca di un angolo di privilegio, e solo per sentire l’assalto del mare dallo strapiombo di certe alture. Capri resta Capri, e bisognerebbe rilanciare nel terzo millennio lo spirito che l’ha sempre sorretta, di «isola dell’eversione, isola del gioco, isola dell’utopia, isola dell’oblio, isola della maschera, doppia, plurale, politeista». Fu moderna prima della modernità, all’avanguardia delle avanguardie. Libertaria, approdo di esperimenti artistici, architettonici, urbanistici, musicali che poi avrebbero cominciato a diffondersi nel mondo. Rivoluzionaria sempre, non va dimenticato. Per questo La Conchiglia riporta in libreria un’edizione totalmente riveduta e ampliata di “Amori et Dolori Sacrum. Capri, Un’infinita varietà. 1905/1923: l’Isola di Jacques Fersen”, volume a cura di Riccardo Esposito che attraverso un inedito apparato di magnifiche fotografie d’epoca e testi ricostruisce il ventennio di inizio secolo, quando Capri, più che mai, fu capitale del mondo.

C’era il laboratorio politico e culturale di Gor’kij, Lenin, Bogdanov, poi Debussy ispirato dalle colline di Anacapri per i suoi preludi, e arrivavano Rilke, Conrad, Maugham, Depero, Benjamin, Brecht, Gerda Wegener, tantissimi ai quali si aggiungono chi viveva stabilmente sull’isola, Axel Munthe, Norman Douglas, Edwin Cerio. Nell’infinita varietà di intelligenze che in quegli anni trovarono a Capri l’aria, la luce giusta per brillare, la trincea paradisiaca in cui rifugiarsi, c’è soprattutto il barone Jacques d’Adelswärd-Fersen, poeta, romanziere, dandy, la mente piena di bellezza che immaginò un luogo come Villa Lysis. Nella casa che odorava di rose e incenso e di libertà, Fersen visse l’amore con Nino Cesarini, tramutò il luogo in paradiso faunesco. Capri a quel tempo era emblema di un nuovo corso della storia, l’omosessualità vissuta in libertà, con naturalezza, non era criminalizzata, per quanto non mancassero anche campagne stampa per il decoro e la morale, con brutali accuse nei confronti di Oscar Wilde, di Krupp. Fersen negli anni capresi, prima del suicidio da esteta bevendo cocaina dal calice inciso da Gemito, scrisse versi sublimi e feroci raccolti nel volume e tradotti da Romano Paolo Coppini e Rolando Nieri – «Voi siete i borghesi panciuti che disprezzate / chi passa con un sogno in testa, e fieri di essere oneste nullità, / condannate i nostri baci senza conoscerli!» – fondò una rivista come “Akademos” alla quale collaboravano Maeterlinck e Anatole France tra i tanti, seguendo il principio dell’intelligenza contro la volgarità. Un libro per scoprire il valore letterario di Fersen oltre la mitologia dell’eccesso, per ascoltare la vita inebriante che attraversava Villa Lysis e sottrarla alla «periodica spettacolarizzazione e dalla congelante museificazione», e soprattutto per sentire oggi la modernità del suono del passato di Capri.

 

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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