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27 Aprile 2005

Partenope, una città a due facce – IL MATTINO

di Marino Niola

VINCENZO CUOCO, il grande storico della rivoluzione partenopea del1799 diceva che a Napoli esistono due «nazioni», divise da due secoli di storia e due gradi di clima. Da una parte gli «italiani» di Napoli, la borghesia delle colline e delle strade che si aprono sul golfo, e dall’altra la plebe che abitava il ventre della città. La frattura tra i due popoli incide come una faglia il corpo e l’anima di Partenope dando alle stratificazioni della storia l’apparente, immemoriale naturalità di una geologia. Dell’esistenza del popolo, scriveva Anna Maria Ortese, non c’era nessun segno sulle facce dei borghesi: come se la plebe stessa, aprendosi come una montagna avesse «vomitato questa gente più fina, che, allo stesso modo di una cosa naturale, non aveva occhi per l’altra cosa naturale».
Misurarsi con la complessità napoletana significa discendere lungo i tornanti del tempo fino alle concrezioni oscure dove i due bordi della faglia si saldano e delle stratificate ragioni delle divisioni, delle contraddizioni, delle complicità, delle contiguità resta una memoria quasi fossile, spesso trasfigurata in immagini di dolorosa contemplazione, di algido sentimentalismo, di oleografico vedutismo, di manieristica indignazione, di archetipica naturalizzazione: altrettanti modi per immobilizzare la storia ancorandola al respiro atemporale del mito.
Un suggestivo viaggio nelle viscere di Napoli alla ricerca dell’origine ditale duplicità è quello compiuto da Adrian Martin nel suo Giano di Napo-li, un libro degli anni Sessanta ora provvidenzialmente riapparso per le edizioni La Conchiglia (pagg. 216, euro 18). Secondo Martin, Giano il dio bifronte, è il vero archetipo di Napoli, la figura ancestrale «che sosta incosciente sul fondo dell’anima napoletana».
L’autore sperimenta una autentica discesa alle madri, si cala nelle profondità del cuore di Partenope per ritrovare la cifra enigmatica nascosta sotto il movimento vorticoso degli eventi storici che agitano la città dalla sua fondazione. Quello di Martin si annuncia dunque come tentativo di catturare la vorticosa fluvialità delle vicende di Napoli in una figura costitutivamente doppia come quella dell’antico dio delle porte – un divus ianuarius nel senso letterale, dal latino ianua che significa appunto porta. Il libro passa in rassegna figure, luoghi, tipi e personaggi che costituiscono la trama simbolica dell’identità locale. La fondatrice Partenope, il mago Virgilio, il miracoloso san Gennaro, gli antichi ipogei votati al culto delle anime del Purgatorio e i bassi sovrappopolati che a Martin appaiono alla stregua di luoghi liminali votati a una sacralità femminile dimenticata, ultima tana di un primordiale diritto materno.
Creature del mito più che della storia, tali appaiono all’autore i napoletani. Molto vicini al senso del greco deinos che significa insieme magnifico e spaventoso, i figli di Partenope sarebbero emblemi e prigionieri di un enigma atemporale. Che è poi una suggestione rappresentativa molto ricorrente nella letteratura sulla città. Non è un caso che molte delle belle pagine pagine di Martin su quella natura femminile – tale era per i Greci la physis, madre di ogni metamor-fosi – che sembra governare, remota, gli ordinamenti culturali della città, riecheggino celebri allusioni letterarie alla originaria ferita napoletana e alla sua inguarita dualità. Dall’immagine goethiana di una città stretta tra il bello e il tremendo e dei suoi abitanti in bilico tra Dio e Satana, a quella leopardiana che rappresenta la natura come una donna «di volto mezzo tra bello e terribile». Immagine che sembra calcata proprio su quella Napoli «semibarbara o semicivile piuttosto» che appariva al poeta di Recanati come una soglia tra cultura e natura. O meglio tra il tempo storico della modernità e quello di un’antichità velata dal mito.
Una velatura che non significa però che la città sia fuori della storia. In realtà, come avverte Fulvio Tessitore, nella lucidissima postfazione che arricchisce il volume, quella corrispondenza ininterrotta tra simboli e figure – che all’autore appaiono come altrettanti sigilli archetipici di una verità che «giace nell’elemento mitico, non in quello storico» – persino quando appare profondamente immemore, è saldamente e risolutamente storica. E semmai l’eccesso di densità di una storia drammaticamente sovraffollata di vicende e di protagonisti a produrre quella sorta di naturalizzazione che sembra ascrivere la vicenda della città alle leggi immutabili del sangue, «agli oceani ancestrali delle inconsce forze etonie».
Ma tale ancestralizzazione, pur illusionistica, si rivela una suggestiva metafora poetica. Perché è proprio la scrittura il punto di forza di Adrian Martin, in grado di nobilitare persino i luoghi comuni avvolgendoli in un visionario involucro letterario e innalzandoli al grado di verità in maschera.

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