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18 Marzo 2016

Romaine, dandy saffica che perse la testa per il Vate – “SETTE” CORRIERE DELLA SERA

di Giuseppe Scaraffia

Romaine Brooks non cercava il successo. Era il successo che doveva scomodarsi a venire da lei. Quella donna dandy slanciata, spesso vestita di nero, “fu celebre suo malgrado”. E ora una suggestiva mostra a Venezia, a Palazzo Fortuny, aperta fino al primo maggio a cura dell’esperto Jérome Merceron, celebra la sua arte di pittrice. La Brooks fu una delle prime donne a rifiutare di essere vittima del puritanesimo americano sottolinea Morand, uno dei suoi tanti ammiratori, da Apollinaire a d’Annunzio. Riparata in Europa, era vissuta modestamente fino alla morte della madre, quando, ereditata la fortuna familiare, aveva iniziato a vivere liberamente. A Parigi si era innamorata di un’altra americana, la scrittrice Natalie Barney. L’Amazzone così soprannominata da uno scrittore a sua volta innamorato di lei, si era sottratta come Romaine dalle ristrettezze morali della società americana. Viveva nella lussuosa casa di rue Jacob, raccogliendo intorno a se, insieme ad alcune celebrità letterarie, da Valéry a Pound, l’eccentrica, geniale tribù saffica di Parigi. Un gruppo di donne libere e autonome come lady Troubridge, effigiata dalla Brooks in abito da seta maschile, capelli corti e monocolo.

Purtroppo, presto Romaine dovette ammetterlo: la Barney l’amava più delle altre, ma aveva bisogno delle altre per rendersene conto. E, come se non bastasse, si circondava di una moltitudine di amici e di conoscenti. Solitaria da sempre, la Brooks era riluttante a entrare nel salotto dell’amica, dove si sedeva immobile e taciturna, lo sguardo fisso. Solo quando gli altri venivano a omaggiarla si rianimava, discorreva ironicamente e esplodeva in brevi risate. Tutte le sue case erano strategicamente arredate in bianco e nero, tranne pochi mobili antichi, “Un’armoniosa fusione d’eleganza, semplicità e buongusto”, nota Ciro Sandomenico nella bella biografia dell’artista, Tra Saffo e d’Annunzio. Vita, amori e opere di R. Brooks, La Conchiglia. La Brooks aveva assorbito da Whistler James, il culto di tre non colori: il bianco, il nero e il grigio. Non a caso d’Annunzio l’aveva soprannominata Cinerina. Il giovane Jean Cocteau, ritratto sullo sfondo della Tour Eiffel, scelta per esprimere lo slancio verso la modernità del giovane autore, è risolto nelle tre tinte. Solo al fiore all’occhiello e a una casa sullo sfondo è permesso d’arrossire. Ma la vivacità di Cocteau rimane volutamente tra parentesi, in quel limbo di malinconia in cui la Brooks sospende i suoi modelli. Una malinconia ancora più preponderante nel nudo in piedi della Rubinstein, vestita solo di una camicetta aperta. Dai suoi pallidi nudi, da quello di Azalee bianche a quello di Ida Rubinstein con le palpebre abbassate, non emana sensualità ma un silenzioso culto della bellezza interiore. “Non mi hai imbellito!”, era insorta la marchesa Casati, sua amante, dipinta senza vestiti con un’espressione torva e spiritata. Al che l’altra aveva replicato seccamente:”Ti ho nobilitato!”. Non c’è la minima indulgenza nel suo autoritratto in cui posa con il cappello nero calato sui “diamanti neri” degli occhi, vestita virilmente in giacca nera e camicia bianca. Tutti i personaggi della Brooks hanno miracolosamente lo sguardo di chi, solo in una stanza senza nemmeno uno specchio, è assorto in se stesso.  Un omaggio alla solitudine tanto amata dalla pittrice, che aveva condiviso con la donna più amata, Natalie Barney, una singolare villa, chiamata “Trait d’Union”, in cui soltanto la camera da pranzo con un gigantesco tavolo di marmo univa i due padiglioni ognuno abitato da una di loro. Mentre la zona della Barney pullulava di invitati, quella della Brooks rimaneva chiusa e silenziosa. La pittrice era capace di passare lunghe giornate senza uscire, assorta nel suo lavoro. Il dinamismo di Natalie Barney, celebrata in una sinfonia di grigi, è rivelato dalla statuina nera di un cavallo al galoppo su un foglio bianco.

Frecce sul corpo nudo. Ma non era sempre stato così. Il famoso ritratto di Gabriele d’Annunzio, un monumento alla sobrietà del dandysmo del Ventesimo secolo, l’aveva iniziato all’Hotel Meurice, dove l’italiano abitava. Ma aveva dovuto interromperlo perché un’ammiratrice del Vate frastornava lei e gli altri clienti, gridando:” Voglio Gabriele! Voglio Gabriele!”. Quell’incontro era stato l’inizio di una passione imprevista, l’unica per un maschio. Nell’euforia della sapiente adulazione di quel seduttore, Romaine, così schiva, era arrivata a scatenarsi con lui nella nuova danza alla moda, il tango. L’ascendente del Vate era tale che, come varie altre sue vittime, anche la Brooks aveva contribuito a mantenere il suo lussuoso tenore di vita. Aveva desistito, irritata dalla sua sfacciataggine, solo quando d’Annunzio, assediato dai debiti, le aveva proposto di essere la sua unica amante in cambio di un aumento delle elargizioni. Con lui aveva dovuto condividere anche l’amore di Ida Rubinstein, con cui aveva soggiornato a Capri. Romaine aveva scherzato su quel triangolo raffigurando d’Annunzio come un arciere nano intento a lanciare frecce sul corpo nudo della Rubinstein, una strizzata d’occhi al “San Sebastiano” di Gabriele, scandalosamente interpretato da Ida. D’Annunzio e la Barney, ammetteva la Brooks, erano stati i suoi unici amori. In un biglietto trovato dopo la morte di Romaine, Gabriele le aveva scritto imperiosamente: “Siate pronta per andare al match di boxe: abito sobrio, ma raffinato, pochi gioielli, qualche ciuffo di capelli in più sulle tempie, niente cappello, occhi fiammeggianti, bocca dipinta”.

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