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Storia felice e dolente di Max e Flora, artisti nella Vietri anni ‘20 – LA REPUBBLICA NAPOLI
di Pier Luigi Razzano
Fu un paradiso di luce e quiete ad accogliere Max e Flora, che nel 1926 si erano lasciati alle spalle la Germania di Weimar avvolta da un’atmosfera plumbea, stretta dalla crisi economica, angustiata dal debito della Grande Guerra e dai venti dell’antisemitismo. Arrivarono a Vietri, Max e Flora, con la loro arte, un gusto raffinato, un’ispirazione rinnovata, e fondarono la Ics (Industria Ceramica Salernitana) potenziando una tradizione che si fece conoscere in tutto il mondo. Una storia dimenticata, poco raccontata, ricostruita fin nei dettagli da Antonio Forcellino, attraverso una struttura che alterna romanzo, saggio, scrittura autobiografica in “La ceramica sugli scogli”, uscito per l’Edizioni La Conchiglia, punto di riferimento nella ricostruzione di fatti avvenuti nei luoghi della Campania. Ed è quello che fa Forcellino, restauratore di fama mondiale – tra i suoi lavori c’è il “Mosè” di Michelangelo – un’autorità nello studio del Rinascimento, e vietrese di nascita, partendo da testimonianze orali, memorie di chi ancora ricorda, ha vissuto o assistito alle fortune e miserie, per restituire ascesa e caduta di Max Melamerson e Flora Hagg, la coppia geniale, avventurosa che conquistò con amore il sud, l’Italia, e pure il regime.
Il loro matrimonio, nel 1910, ad Amburgo, fu già un atto di coraggio, oltre che di amore: infatti Max era ebreo ortodosso, russo, desideroso di amplificare le proprie vedute, di “europeizzarsi”, e Flora ebrea tedesca, più progressista e laica, aveva la propria sensibilità alimentata dall’esplosione delle avanguardie artistiche. Vissero nella Berlino delle rivolte, infiammata dai fervori del socialismo di Rosa Luxemburg, dei mille cabaret esaltati dal Bauhaus, che nella sua visione aveva proprio il dirottamento dell’arte verso la massa, un’apertura al popolo, quindi una ricerca estetica applicata anche su oggetti di uso comune, mobilio, grafica pubblicitaria, e la ceramica. Però, a causa della crisi economica, dell’avanzare del nazionalismo con lo sventato “Putsch di Monaco”, i due decisero di andare a sud, per trovare una nuova vita. Max e Flora arrivarono a Marina di Vietri nell’autunno del 1926, dopo pochi mesi furono già attivi, aprirono una fabbrica, una “faenzera”, una fornace che di lì poco, nel giro di pochi anni, forgerà stile, bellezza, eleganza, un simbolo di intelligenza applicata all’artigianato. La loro fabbrica, che si affacciava proprio di fronte gli scogli dei due fratelli di Vietri, fu l’esempio di un regime lavorativo che seguiva tecniche tedesche, un ritmo che ottimizzava le risorse del luogo, mentre Flora metteva a servizio di ottimi artigiani, come Giovannino Carrano e Guido Gambone, gli insegnamenti appresi negli atelier di pittura e scultura tedeschi da un artista quale Ludwig von Hofmann. Intanto Max tesseva relazioni, la Ics diventava, per tutta Italia, un esempio di imprenditoria illuminata. Per i vietresi erano i “forestieri” che avevano portato innovazione, crescita economica armonizzata con il loro stile di vita. Richieste delle pregiate lavorazioni di Vietri arrivarono dal duce per arredare Palazzo Venezia, mentre il principe Umberto di Savoia le volle per l’appartamento privato; un realizzato sogno di imprenditoria e arte sorse anche in Toscana. Poi, ancora i venti della Storia a funestare la loro vita. L’entrata in vigore delle leggi razziali nel 1938 e per loro cambia tutto. L’azienda è espropriata, Max è internato nel campo di Fossoli, ferite e orrore coprono lentamente una storia che grazie a Forcellino ora ha ritrovato la luce.
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